Un saluto ai lettori Oppp! Oggi commentiamo un messaggio twittato da Matteo Salvini a corredo del manifesto su cui campeggia la scritta “Rendiamo l’utero in affitto reato universale”, volto a promuovere una raccolta firme.
Vediamo insieme i meccanismi di implicitezza che rendono il tweet più (subdolamente) convincente. Il messaggio si apre con la frase “Quando si sfrutta una mamma e se ne vende il bambino”. Confezionare un contenuto in una subordinata che precede la principale, come in questo caso, permette di renderlo implicito da due punti vista: (1) presupponendo che i destinatari conoscano già il contenuto, e (2) dando per scontato che quel contenuto sia anche la cosa a cui stavano pensando nel momento in cui ci si rivolge loro (come dicono i linguisti, topicalizzandolo). Con questa formulazione, Salvini suggerisce dunque ai lettori che sia loro noto e attualmente pertinente che delle mamme vengano sfruttate e dei bambini venduti. Se riferiti alla pratica altrimenti chiamata “gestazione per altri”, però, questi contenuti non possono essere dati per scontati: altre voci ne danno infatti una descrizione completamente diversa, che non la identifica con lo sfruttamento e la compravendita di esseri umani.
Più avanti, Salvini scrive: “è nostro dovere fermare lo squallido business miliardario dell’utero in affitto”. In questo frammento, il verbo di cambiamento “fermare” presuppone che quel che segue sia già in atto (altrimenti come potrebbe essere fermato?). E quel che segue è menzionato attraverso un sintagma nominale introdotto dall’articolo determinativo (una descrizione definita), che quindi presuppone l’esistere di una cosa da chiamare “squallido business miliardario”. Ma che di questo si tratti, cioè che la pratica della gestazione per altri sia uno squallido business miliardario, è invece tutto da dimostrare: presupporlo è disonesto, e serve allo scopo di convincere i lettori che sia vero, senza prendersi la responsabilità di tale affermazione. Questo passaggio inoltre implica che le ragioni per cui molti sono a favore di questa pratica siano puramente economiche (e dunque “squallide”), ignorando deliberatamente le numerose ragioni affettive per cui le persone si avvicinano a questa procedura medica.
Infine, a ben vedere, la stessa espressione “l’utero in affitto” ci mostra il potere persuasivo che deriva dalle etichette che applichiamo alle cose. Chiamare una pratica “l’utero in affitto” le conferisce una connotazione negativa perché sottolineando solo quell’aspetto finge che si tratti dello stesso modo di procedere che si adotta con l’affitto di oggetti. Il procedimento è lo stesso che se si chiamassero mestieri come l’avvocato, il chirurgo o il violinista “intelligenza in affitto” o “mani in affitto”, o un volontario ospedaliero “chiacchiere in affitto”. Si attiva così una metafora deumanizzante e svilente, rinforzata dall’associazione visiva con l’immagine, in cui sulla pancia di una gestante è affisso un cartello “affittasi”. Non per caso, l’etichetta “utero in affitto” è rifiutata da chi è favorevole alla pratica.
Ancora una volta, abbiamo visto che, quando si affrontano temi sociali controversi, le strategie implicite – con il loro potere di abbassare il senso critico dei destinatari – giocano un ruolo importante.